I Florence and The Machine abbandonano orpelli e stile gotico e pubblicano un disco rock maestoso, anticipato dai singoli Ship to wreck e What kind of man.
“I was on a heavy tip,
trying to cross a canyon with a broken limb;
you were on the other side, like always,
wondering what to do with life…”
Mentre pensavo a quale fosse il modo più giusto per iniziare l’articolo, mi sono venuti in mente questi primi versi di What kind of man, singolo di apertura del disco. Parlo dei Florence and The Machine e del (lungo) periodo in cui sono stati lontano dalle scene: hanno più volte dichiarato di voler prendersi una pausa, dal momento che la pubblicazione dei due dischi Lungs (2009) e Ceremonials (2011) ed i rispettivi tour non hanno permesso loro di fermarsi; la Welch stessa sentiva il bisogno di un deep breath, per tirare le somme delle esperienze fatte e capire in che direzione andare. Così è stato. Mancavano dal 2012, eclissatisi dopo la trionfale Spectrum (“say my name and every colour illuminates” ricordate?), e non sono state sufficienti le continue richieste dei fan a farli tornare.
Arriviamo al 2015 quando, quasi un anno fa, spunta in rete un video accompagnato da una traccia strumentale di How big how blue how beautiful, con il quale rilasciano degli indizi sullo stile del disco. L’elemento che li aveva fino ad allora caratterizzati, l’arpa, lascia il posto alle trombe per creare atmosfere maestose ed orchestrali; tuttavia quello che più lascia il pubblico colpito è la presenza delle chitarre: What kind of man, dopo un incipit basso tanto da sembrare recitato, in un crescendo si apre con guizzi di chitarra elettrica, per adattarsi ad un testo dal gusto e dai toni forti… “quale razza d’uomo ama in questo modo, quale?” Si potrebbe dire un inno alla libertà dalla violenza, tanto psicologica quanto fisica (si avverte la volontà di staccarsi da un vincolo troppo forte).
E’ un disco più pop dei precedenti, in cui i Florence and The Machine hanno cercato (con l’aiuto del produttore Markus Dravs) di far incontrare a metà strada i due precedenti lavori. Il risultato è qualitativamente ottimo, tra momenti di rock vecchio stile con Ship to wreck e Various storms and saints e brani più ariosi come la già citata How big how blue how beautiful, Third eye (inno sul recuperare la fiducia in se stessi vista come identità ed unicità) e Caught; non manca il piglio sfrontato del primo disco che ritroviamo nelle potenti Delilah e Queen of peace, in cui i tamburelli, le percussioni e i fiati fanno da padroni.
Se mi chiedessero di trovare un manifesto che meglio rappresenti la forza di questo disco, direi il finale strumentale della title track: trasmette un profondo senso di apertura e di libertà, di rinascita, sempre presente nei testi ed in fondo ricercata dalla Welch.
The Odissey (così il gruppo ha chiamato il ciclo di videoclip da accompagnamento ai singoli, per creare un vero e proprio viaggio) sta volgendo al termine, ma ci sono degli appuntamenti che riguardano noi italiani: verranno in tour a Bologna e a Torino, rispettivamente il 13 e 14 aprile.

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